Diario da Bergamo, Cerea: ora cucinare per me è regalare speranza

Chef stellato preparerà pasti per ospedale da campo degli Alpini

MAR 24, 2020 -

Milano, 24 mar. (askanews) – “E’ brutto dirlo ma ora ti sembra che il cerchio si restringa e colpisca le persone sempre più vicino a te. Prima senti parlare dell’amico, dello zio, del nonno, poi cominci a conoscere le persone che mancano, e quello è ciò che fa più paura: non sai contro chi sei, contro cosa stai facendo”. Enrico Cerea parla al telefono con la profondità della voce di chi conosce la gravità del momento, ma non si ferma. Chef tre stelle Michelin e patron del ristorante Da Vittorio a Brusaporto, un quarto d’ora di macchina da Bergamo, Cerea di fronte all’emergenza che ha travolto la sua città, ha scelto di rimboccarsi le maniche, nonostante la paura. “Io sto bene al momento, continuo a dire che al momento sto bene – ci dice mentre si appresta a partecipare a una riunione sull’allestimento del nuovo ospedale da campo alla Fiera di Bergamo – E’ un momento tragico, surreale, nessuno si sarebbe mai aspettato una cosa così, è un qualcosa di veramente brutto, però c’è la voglia di reagire, di non mollare”.

Per l’ospedale da campo dell’Associazione nazionale alpini che verrà allestito alla Fiera il gruppo Da Vittorio Vicook, della famiglia Cerea, preparerà i pasti, dalla prima colazione alla cena, necessari sia per i pazienti che per il personale impiegato nella struttura. “Noi siamo pronti – dice Cerea – abbiamo fatto già tutta la logistica, abbiamo una squadra di nostri ragazzi pronti a lavorarci. Quando me lo hanno detto, il giorno stesso io ho fatto l’appello e dopo due tre giorni sarei stato pronto. Purtroppo c’è stato un tira e molla tra la Regione e il Comune e si sono persi una settimana – dieci giorni secondo me molto importanti, però adesso si è deciso, ognuno sa cosa deve fare e procediamo”. La struttura guidata da Cerea preparerà ogni giorno 450 pasti, divisi su tre turni, che saranno preparati in loco.

“Abbiamo preso le cucine della fiera e le abbiamo ampliate con dei camion frigo – racconta – al massimo poi metteremo delle piastre supplementari e forse ci vorrà una zona di confezionamento perché va tutto servito in monoporzione, isolato e in stoviglie usa e getta, non è il solito self service”. Ogni mattina quattro o cinque cuochi prepareranno i piatti che saranno serviti “più che altro a medici, infermieri, ausiliari, volontari. I pazienti purtroppo mangiano un gran poco” constata con rammarico lo chef che, però, conserva tutta la determinazione appresa dietro i fornelli. “In questo progetto mettiamo tutte le energie che abbiamo, per il resto mettiamo una quindicina di persone. Per ora noi abbiamo dato la nostra disponibilità fino a fine luglio poi vediamo”.

E mentre questo progetto è ancora in divenire con la mente ha già pensato che potrebbe fare anche dell’altro per la sua città, flagellata dal virus. “Le dico, che se riesco, ma non lo so ancora, mi creda, se la macchina gira come deve girare, potremmo fare dai 50 ai 100 pasti al giorno per gli anziani e le persone sole a Bergamo. Se riusciamo, vorremmo farlo”. La determinazione forse gli deriva anche dalla solidarietà con cui hanno risposto al suo appello per una colletta alimentare destinata proprio all’ospedale da campo di Bergamo da ogni parte del mondo. “La spesa – ci racconta – è stata una cosa che mi fa venire le lacrime agli occhi a pensarci: mi hanno scritto da Israele, dal Qatar, dal Giappone, per non dirle dall’Italia dove tutti i grandi gruppi della distribuzione, non uno si è astenuto, gente che non conosco, alberghi, magari chiusi che offrono tutta la merce che hanno e non usano: potremmo sfamare due milioni di persone per tutta la merce che abbiamo. Infatti ora il lavoro più difficile è gestire queste merci, farci aiutare da tutti senza sprecare merce, senza buttare via nulla”.

L’emergenza sanitaria di queste settimane ha costretto la famiglia Cerea a rivedere anche i propri piani per il ristorante stellato a Brusaporto. “Noi abbiamo chiuso il ristorante un paio di giorni prima (dei provvedimenti governativi, ndr) perché abbiamo avvertito l’esigenza di proteggere noi, i nostri dipendenti e i nostri clienti: siamo una struttura grossa, più si è grandi più c’è possibilità di contagio – dice – Però in un numero ristretto di cinque persone abbiamo continuato con il delivery: lavoriamo a distanza di 7-8 metri l’uno dall’altro, con mascherina, guanti e disinfettanti e stiamo cercando di fare più un servizio che altro, perché è più la spesa che l’impresa”. Con questa idea di convertire temporaneamente le cucine per il servizio di consegna a domicilio “siamo andati fino a Varese, Milano, Brescia, e la cosa più bella è che mi arrivano messaggi stupendi: mi hai fatto ritrovare il sorriso, ieri sera in famiglia non ci sembrava vero, non vediamo l’ora di tornare da voi e ritrovare la gioia, mi scrivono i clienti”. E qui con la voce che trema dall’emozione ci racconta di “un amico che mi ha chiamato ieri dall’ospedale dove è ricoverato da due settimane: il 30 compie gli anni e per quella data dovrebbe tornare a casa, dove lo aspettano la moglie e la figlia e mi ha detto ‘se torno a casa vorrei festeggiarlo con la tua torta con qualche piatto tuo’. Ecco per me il mio lavoro ora è regalare una speranza, una gioia”.

Quando si potrà ricominciare è difficile dirlo: “La mia speranza è di riaprire il ristorante nella prima quindicina di maggio, ma la mia è solo una speranza, non ne ho idea. Noi avevamo in essere due aperture all’estero che sono ormai congelate, diverse consulenze e ora è tutto fermo. Ma le dirò che il lavoro ora è tutto in secondo piano. L’unica paura, se non ci fosse stata la cassa integrazione, era quella di capire fino a che punto saremmo riusciti a pagare i nostri dipendenti perché abbiamo circa 200 dipendenti da una parte, 250 in un’altra attività ed è tanto e la responsabilità che abbiamo verso di loro è enorme e incredibile”.