Delitto Macchi, Stefano Binda condannato all’ergastolo

Lui impassibile alla lettura della sentenza

APR 24, 2018 -

Varese, 24 apr. (askanews) – E’ Stefano Binda l’assassino di Lidia Macchi. Lo hanno stabilito i giudici della Corte d’Assise di Varese condannando all’ergastolo il 50enne per omicidio volontario (aggravato dalla crudeltà ma non dai futili motivi, aggravante che la Corte non ha riconosciuto) della studentessa varesina massacrata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987 nel bosco di Cittiglio. Il verdetto dei giudici togati e popolari presieduti da Orazio Muscato è arrivato dopo poco più di 3 ore di camera di consiglio. E’ la prima sentenza di un Tribunale italiano su un “giallo” rimasto irrisolto per quasi 30 anni. Binda, presente in aula, è rimasto impassibile alla lettura del verdetto.

L’imputato è stato anche condannato al pagamento di una provvisionale di 200 mila euro a Paola Bettoni, madre di Lidia, e di 80 mila euro ciascuno a favore di Stefania e Alberto Macchi, sorella e fratello della vittima. Si chiude così il primo processo su uno dei più grandi “cold case” della cronaca nera italiana. La svolta arrivò nel gennaio 2016, con l’arresto chiesto e ottenuto da Carmen Manfredda, il magistrato della procura generale di Milano che, nel luglio 2014, aveva avocato a sé il fascicolo assumendo la titolarità dell’indagine fino a quel momento condotta, senza risultati, dalla procura di Varese.

In manette finì il 50enne di Trebbia, ex compagno di liceo di Lidia che militava insieme a lei nel movimento di Comunione e Liberazione e che già a 16 anni era tossicodipendente da eroina. Prima dell’assassinio della studentessa, i due erano molto amici e frequentavano la stessa cerchia di amici. A tradirlo, secondo l’accusa della procura generale di Milano, è la perizia grafologica che lo ha indicato come autore di “In morte di un’amica”, componimento in versi recapitato alla famiglia Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia, che contiene una descrizione della scena del delitto e che per questo è stato immediatamente attribuito dagli inquirenti all’assassino della studentessa. Fu Patrizia Bianchi, poi sentita come testimone chiave nell’aula del processo di Varese, a notare una notevole somiglianza tra la grafia del componimento (pubblicato nella sua forma manoscritta da un giornale locale) e quella di alcune cartoline che le erano state inviate da Binda in gioventù. Insospettita, la donna (che in passato era molto legata sia a Lidia che a Binda) consegnò le quattro cartoline agli inquirenti della squadra mobile di Varese. Chi le scrisse, stabilì la successiva consulenza grafologica, è la stessa persona che vergò il componimento “In morte di un’amica”. Vale a dire il killer di Lidia.

Il processo contro Binda prese il via nell’aprile 2017 con un colpo di scena. Durante la prima udienza, infatti, i difensori del 50enne annunciarono di aver saputo che un avvocato di Brescia aveva ricevuto mandato da un uomo misterioso che si attribuiva la paternità del componimento. Il legale bresciano, Piergiorgio Vittorini, fu poi ascoltato in aula come testimone, ma decise di trincerarsi dietro il segreto professionale: “So chi ha scritto quella lettera, ma non posso rivelarne il nome”. Per l’accusa, oltre alla consulenza grafologica, sono anche altri gli indizi contro l’imputato. Come il libro e la cartolina sequestrati nella sua abitazione che conteneva lo stesso simbolo, un cerchio attraversato da una riga, vergato in calce al componimento “In morte di un’amica”. O come il foglietto con scritto a mano “Stefano barbaro assassino” ritrovato su una sua agenda dell’anno 1986. E ancora, la Smemoranda del 1989 intestata, in prima pagina, a “Binda Stefano che però si è pentito”. Infine i testimoni ascoltati nel processo che hanno riferito di aver notato una berlina molto chiara, simile a quella all’epoca posseduta da Binda, posteggiata la sera del delitto davanti all’ospedale di Cittiglio, comune tra Varese e il Lago Maggiore, dove Lidia si era recata per visitare un’amica ricoverata.

Tutti indizi ma nessuna prova secondo i difensori di Binda che sin dal giorno dell’arresto ha sempre respinto ogni accusa proclamando la sua innocenza. Interrogato in aula, il 50enne, difeso dagli avvocati Sergio Martelli e Patrizia Esposito, aveva negato di essere l’autore della poesia attribuita al killer ribadendo il suo alibi: “In quei giorni ero in vacanza a Pragelato (località sciistica delle alpi piemontesi – ndr) ma non ricordo chi fosse con me”. Ma a scagionarlo, secondo i suoi difensori, è soprattutto un elemento: i 4 capelli ritrovati sui resti della vittima dopo la riesumazione del cadavere disposta nel marzo 2016 per nuovi accertamenti. Capelli, hanno stabilito i periti del Tribunale di Varese, che non sono riconducibili nè a Lidia nè a suoi parenti. E che soprattutto non appartengono a Binda. Per la difesa, è la prova della sua innocenza. Secondo l’accusa, invece, sarebbero di una persona che non ha nulla a che fare con il delitto e potrebbero essere la conseguenza di una “contaminazione” probabilmente da parte di chi si era recato alla camera ardente nei giorni precedenti ai funerali e aveva toccato il corpo della studentessa per un ultimo addio.