La storia del boss Matteo Messina Denaro e del mercante d’arte

Becchina da anni al centro di sospetti mai provati nei processi

NOV 15, 2017 -

Roma, 15 nov. (askanews) – Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Cosa Nostra, latitante da più di 24 anni, aveva capito che anche con le opere d’arte si potevano fare affari. La passione per questo business gli era stata trasmessa sin da ragazzo da padre Francesco. Ed è lungo il filo delle indagini che hanno portato al provvedimento di sequestro di beni dal valore di svariati milioni di euro realizzato dalla Dia di Trapani nei confronti di Giovanni Franco Becchina, commerciante internazionale d’opere d’arte e reperti di valore storico-archeologico. Becchina, originario di Castelvetrano, paese natale e feudo di Matteo Messina Denaro, è finito in diverse indagini giudiziarie da cui però è sempre uscito.

Secondo la ricostruzione effettuata dagli investigatori, per oltre un trentennio Becchina, oggi quasi ottantenne, avrebbe accumulato ricchezze con i proventi del traffico internazionale di reperti archeologici, molti dei quali sarebbero stati trafugati clandestinamente nel più importante sito archeologico della Sicilia (Selinunte) da tombaroli al servizio di Cosa nostra.

A gestire le attività illegali legate agli scavi clandestini ci sarebbe stato l’anziano patriarca mafioso Francesco Messina Denaro, poi sostituito dal figlio Matteo.

Secondo alcuni collaboratori di giustizia, ci sarebbe stato proprio l’anziano padrino dietro il furto del famoso Efebo di Selinute, statuetta di grandissimo valore storico archeologico trafugata negli anni Cinquanta.

La complessa storia di Becchina, mercante d’arte, inizia quando, emigrato dalla natia Castelvetrano, va in Svizzera, dopo aver subìto una procedura fallimentare, nel 1976. Becchina trova lavoro a Basilea come impiegato in una struttura alberghiera, poi intraprende l’attività di commercio di opere d’arte e reperti archeologici.

Già nel 1992, sulla base delle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia che lo indicavano come vicino sia alla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, che alla famiglia mafiosa di Castelvetrano, per conto della quale avrebbe trafficato reperti archeologici, Becchina fu indagato per concorso in associazione mafiosa. Tutte indagini che non portano a nessuna condanna nei confronti di Becchina.

A metà degli anni Novanta, divenuto ormai un affermato uomo d’affari, Becchina tornò in Sicilia avviando altre attività imprenditoriali: dall’olio al cemento.

Il collaboratore di giustizia Brusca, nel confermare gli interessi economici dei Messina Denaro nel traffico dei reperti archeologici, ha raccontato che fu Riina a indirizzarlo dal boss latitante castelvetranese, quando, nei primi anni Novanta, ebbe necessità di procurarsi un importante reperto archeologico, che avrebbe voluto scambiare con lo Stato italiano per ottenere benefici carcerari per il padre.

Il 10 febbraio 2011 il Gup del Tribunale di Roma, confermando le indagini svolte in circa dieci anni dai carabinieri, emise un provvedimento di confisca per cinque magazzini in Svizzera che secondo gli inquirenti erano riconducibili a Becchina e nei quali erano custoditi oltre 5 mila reperti archeologici che secondo i magistrati erano “provenienti da scavi clandestini, furto e ricettazione”. Becchina, che si è definito mercante e mecenate d’arte, non fu processato per la sopravvenuta prescrizione. Pochi anni dopo, nel 2015, i 5.341 reperti archeologici sono stati restituiti dalla Svizzera all’Italia.