Quinto anno di pontificato per Francesco, il Papa inviso ai reazionari

Contrappunto all'era Trump

MAR 13, 2017 -

Città del Vaticano, 13 mar. (askanews) – “La vita la si deve prendere da dove viene, è come il portiere nel calcio: prende il pallone da dove lo buttano. Non bisogna avere paura nella vita”.

All’avvicinarsi del quarto anniversario della sua elezione, Papa Francesco ha utilizzato sempre più frequentemente questa immagine. Settantaseienne, sconosciuto a gran parte dell’opinione pubblica mondiale, l’arcivescovo di Buenos Aires non amava viaggiare e veniva definito schivo e un po umbratile, molto spirituale se non severo. Scelto “quasi dalla fine del mondo” dai cardinali del Conclave in un frangente di crisi nera del Vaticano, il 13 marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio sembrava destinato a concentrarsi su una riforma interna. Né i suoi elettori, né la Curia romana, e forse neppure lui poteva immaginare che, in soli quattro anni, sarebbe assurto a portavoce globale della massa di migranti che fugge da guerre e povertà, punto di riferimento di movimenti popolari e attivisti ambientali, contrappunto – lo hanno certificato anche il New York Times, il Washington Post, il New Yorker, Politico – al nuovo presidente Donald Trump, antidoto al montare di un populismo xenofobo europeo che egli stesso ha paragonato all’ascesa di Adolf Hitler dopo la Repubblica di Weimar.

Anche il romano Pontefice è un uomo di governo, anche lui ha in mente degli obiettivi, anche nel suo caso in corso d’opera spuntano imprevisti sul percorso. In quattro anni Jorge Mario Bergoglio ha sorpreso tutti con gesti eclatanti, strappi al protocollo vaticano, una predicazione senza peli sulla lingua né cautele curiali, uno stile pirotecnico, una serenità e uno humor invidiabili visto che il suo “mestiere” è non di rado “insalubre”, come ha avuto a dire lui stesso. Per i credenti si chiama grazia di stato. Di certo Papa il primo Papa gesuita della storia, il primo Papa latino-americano, il primo Papa Francesco ha avuto chiaro sin da subito che non aveva dinanzi a sé un pontificato infinito e che doveva incidere alcuni cambiamenti radicali, anche a costo di scandalizzare e farsi parecchi nemici. Era questo, del resto, il mandato che gli ha consegnato il Conclave – riformare lo Stato pontificio, rilanciare la fede cattolica – ed è questa l’opera di semina (il raccolto, ripete spesso, lo faranno altri) che da quattro anni non ha mai smesso di fare.

Papa Francesco ha ottenuto grandi successi, come il primo incontro nella storia con il patriarca russo Kirill, la riapertura di una interlocuzione con la Cina, una popolarità continua ben oltre il perimetro dei credenti. Ed ha incontrato non pochi problemi: qualche errore nelle nomine, uno stile a volte rapsodico e a tratti avventato, una crescente opposizione nei settori cattolici conservatori, una fronda curiale che si esprime più nel boicottaggio passivo che nella critica aperta.

Cambiare un organismo complesso, bimillenario, presente con un miliardo e duecentomila fedeli in tutto il globo, del resto, è impresa titanica.

Il successore di Pietro governa la barca – è l’espressione che egli stesso ha utilizzato ricevendo la Civiltà cattolica – sapendo che “a volte nella storia, oggi come ieri, può essere sballottata dalle onde” e “anche gli stessi marinai chiamati a remare nella barca di Pietro possono remare in senso contrario”. Gli incidenti di percorso, solo nei giorni scorsi, non sono mancati. Marie Collins, donna irlandese che da bambina fu molestata da un prete, si è dimessa dalla commissione pontificia per la prevenzione della pedofilia, accusando in sostanza la Curia romana, e in particolare la congregazione per la Dottrina della fede, di boicottare il lavoro di sensibilizzazione sugli abusi sessuali del clero. Negli stessi giorni la sala stampa della Santa Sede ha reso noto a grandi linee il rendoconto annuale consolidato dello Stato pontificio per il 2015, precisando che sarà necessario “qualche anno” per “l’attuazione di una revisione contabile completa” e il Papa in persona “ha preso atto” del bilancio. Due notizie di un colpo d’arresto in altrettanti campi – la pedofilia e le finanze – nei quali la riforma fatica.

Il suo magistero, in realtà, punta a mettere in pratica il Concilio vaticano II (1962-1965), come ha sottolineato oggi alla Radio vaticana il cardinale Segretari di Stato Pietro Parolin.

Sia nel metodo (la collegialità dei vescovi, il maggior coinvolgimento di laici e donne, il superamento del clericalismo) sia nel merito (una Chiesa che dialoga con il mondo e con la modernità, aperta ai peccatori e ai non credenti, non chiusa in atteggiamenti di difesa, rimbrotti morali, ideologie identitarie o lamenti da “profeti si sventura”). Il doppio sinodo sulla famiglia (2014-2015), sfociato nella esortazione apostolica Amoris laetitia, che apre, tra l’altro, alla possibilità di concedere la comunione ai divorziati risposati, ha fatto imbufalire i tutori della tradizione. Quattro cardinali (Burke, Meisner, Brandmueller, Caffarra) hanno espresso pubblicamente i loro dubbi (“dubia”, in latino), arrivando a prospettare un atto formale di correzione del Pontefice se questi non risponderà. Un malumore che tracima oltre il Vaticano, come testimoniato dai manifesti apparsi a inizio febbraio sui muri di Roma, che lo accusano di essere, ad esempio con i quattro porporati, poco misericordioso. Lui non si scompone: “Il dialetto romano dei manifesti era meraviglioso”, ha detto al settimanale tedesco Die Zeit. “Io posso capire che il mio modo di fare non piaccia a qualcuno, questo va assolutamente bene. Ognuno può avere la sua opinione. Questo è legittimo, umano e arricchisce”.

Ma Jorge Mario Bergoglio va avanti. Mentre si avvicina la scelta del nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana, a maggio, e la successione ai cardinali Angelo Scola a Milano e Agostino Vallini a Roma, il Papa, nei giorni scorsi, ha invitato la “sua” diocesi, Roma appunto, ad una consultazione ad ampio raggio, che coinvolga anche i preti, i religiosi e i fedeli laici, nell’individuazione del prossimo Vicario. Più in generale, il Papa argentino ha archiviato un’epoca nella quale Papi, cardinali e vescovi intervenivano prevalentemente sui cosiddetti “valori non negoziabili”, su questioni di bioetica e famiglia, e spinge invece la Chiesa “in uscita”, accanto ai poveri e ai migranti, vicina ai peccatori e alle persone lontane dalla fede cattolica, in dialogo con il mondo. Anche quando questo significa essere in controtendenza rispetto ad una politica che, negli Stati Uniti o in Europa, cavalca il timore delle migrazioni o la diffidenza verso l’islam. Anche questo non era previsto a inizio del pontificato, sebbene sia stata Lampedusa la prima meta fuori Roma che il Papa argentino ha scelto di fare nel suo Pontificato. La crisi migratoria si è aggravata, gli Stati Uniti di Trump lasciano il mondo con il fiato sospeso, la politica italiana è attraversata da incertezze, l’Europa sembra incapace di uscire dalla crisi. E Jorge Mario Bergoglio, lo schivo argentino schivo eletto per riformare il Vaticano, riceve i leader Ue alla vigilia del prossimo vertice di Roma, tiene un filo aperto con la Cina, denuncia la terza guerra mondiale a pezzi nella quale il mondo è immerso, progetta viaggi nella Colombia dell’accordo di pace tra governo e guerriglieri, in India, in Egitto. Come un portiere di fronte agli imprevisti di una partita.

Ska/Int2