Civiltà cattolica: situazione Ilva drammatica ma via d’uscita c’è

Bonifica ambientale possibile. All'estero lo hanno fatto

OTT 22, 2015 -

Roma, 22 ott. (askanews) – Con la vicenda dell’Ilva “sembra di assistere alla parte conclusiva di un copione iniziato con gli impianti chimici di Porto Marghera, dell’Italsider di Genova e di Bagnoli, delle fabbriche di eternit di Casale Monferrato. Con una differenza però: la storia dell’Ilva sembra non avere una fine e un fine condiviso”. E’ quanto afferma la rivista dei Gesuiti “La Civiltà Cattolica” in un articolo-inchiesta a firma del padre Francesco Occhetta. Nonostante i toni documentaristi privi di pregiudizi ideologici, più che un’inchiesta pare di leggere una fredda e dura requisitoria dove nessuno viene risparmiato, sia il pubblico sia il privato, sia i soggetti nazionali sia quelli locali sottolineando in particolare i silenzi sulla situazione sempre più grave per l’azienda ma anche per la città e i suoi abitanti. Rilievi anche per i sindacati che “per anni rinunciano a rivendicare i diritti dei lavoratori” di fronte ad una gestione aziendale con uno strapotere che mostra di non tollerare “mancanze” verso la dirigenza fino ad arrivare a forme di vero e proprio mobbing per stroncare le contestazioni.

La rivista dei gesuiti ripercorre la storia dell’Ilva, dall’inizio degli anni Sessanta fino ad oggi evidenziando come si sia arrivati al drammatico conflitto tra diritto alla salute e il lavoro. Una storia che farebbe cadere nel pessimismo più nero ma dalla quale si può uscire con quella che viene definita una “bonifica culturale” oltre che industriale della messa in sicurezza dell’impianto.

Per fare comprendere l’entità della vicenda padre Occhetta propone alcuni dati: “15 milioni di metri quadri di estensione, 5 altiforni, 5 colate continue, 2 acciaierie, 3 treni di laminazione a caldo, 1 laminatoio a freddo, 3 tubifici, 215 comignoli, circa 200 Km di binari ferroviari interni, 50 Km di strade e 190 Km di nastri trasportatori”. Cifre che fanno capire come l’Ilva di Taranto sia la più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa con circa 16.200 dipendenti a cui se ne aggiungono 8.000 dell’indotto.

Ma tutto questo porta con sé un grave costo sociale: la città si copre di una polvere rossa e nell’aria si levano e si respirano polveri tossiche. Il Cnel documenta una produzione di diossina pari al 92% di tutta quella emessa nel Paese e l’8,8% di quella che è emessa in tutta Europa. Nel 2008 le tracce di diossina riscontrate “nel latte di capra e di pecore che pascolano nei terreni vicini all’Ilva” convincono la Regione Puglia a fare abbattere 2.000 animali in due anni in sette allevamenti diversi e fa distruggere 200 tonnellate di cozze, quintali di formaggio ecc.”. Un rapporto certificato dal Ministero della Salute evidenzia poi dati allarmanti per i cittadini: “L’incremento dei tumori al fegato è cresciuto del 75%, i tumori allo stomaco del 100%, quelli alla mammella del 24%. La mortalità a Taranto è cresciuta del 14% per gli uomini e dell’8%per le donne; per i bambini nel primo anno di vita è cresciuta del 20%. I tumori e le malattie circolatorie sono cresciuti del 211% rispetto alla media della Puglia”.

Di qui la divisione della città e non solo di fronte al tormentato dilemma tra la difesa della salute e quella del lavoro. Un dilemma che arriva a vedere una contrapposizione aspra tra magistratura e politica. Quella che si impone -e non da oggi- è una “bonifica ambientale” con una messa in sicurezza dell’acciaieria. Una bonifica -osserva la rivista dei gesuiti- che ha visto diversi stanziamenti e che “continua a richiedere un investimento che la famiglia Riva, nonostante gli ingenti ricavi, ha scelto ancora di non sostenere”.

“Eppure la bonifica può essere fatta” afferma padre Occhetta che indica alcune possibili strade da seguire. “Come l’industria siderurgica di VoestAlpine di Linz, fiore all’occhiello dell’industria austriaca che ha saputo ridurre al minimo il suo impatto ambientale. L’acciaieria produce la metà dell’acciaio prodotto a Taranto e la città è la seconda più salutare dell’Austria”. Altro esempio proposto è “l’esperienza delle acciaierie coreane Posco, le quarte al mondo, con 30 mln di tonnellate di acciaio prodotte che producono attraverso un processo tedesco avanzato chiamato Finex che rispetto all’altoforno tradizionale riduce l’inquinamento (90% in meno di sostanze tossico-nocive e 98% in meno di contaminazione dell’acqua), il consumo di energie e i costi di produzione (-15%). Molte delle sostanze cancerogene emesse impiegando il ciclo convenzionale, sono con il processo Finex – fa osservare Occhetta- eliminate alla fonte”.

Una via d’uscita dunque esiste e “certo -conclude p. Occhetta- con i ‘se’ e con i ‘ma’ non si fa la storia. Se tuttavia lo Stato prima e la gestione privata poi avessero investito in prevenzione e modernizzazione, non saremmo giunti ai livelli di crisi in cui versa Taranto. Ma la sfida è questa, complessa quanto ineludibile”.